L’arte è finzione, il cinema lo è ancora di più e il regista non è altro che un illusionista che compie giochi di prestigio di fronte agli occhi incantati dei suoi spettatori. Un illusionista, in tal senso, lo è stato per tutta la sua esistenza, tra alti e bassi, Orson Welles, di cui proprio oggi ricorre il centenario della nascita. Brillante, immaginifico, penetrante, magnetico, pieno di contraddizioni e dalla personalità ingombrante, fece della propria vita un’estensione della propria arte, facendole spesso coincidere e confondere. Fu uno dei pochi autori cinematografici a possedere grandi capacità di scrittura, tanto da essere stato lo sceneggiatore di quasi tutti i suoi film. Il suo cinema, da alcuni odiato, da tantissimi amato, è un pot-pourri in cui confluiscono emozioni, stili, potenza espressiva e forza della narrazione dove viene dato largo spazio alla letteratura e all’arte del Novecento, così come al teatro di Shakespeare (da giovanissimo, Welles recitò in diversi spettacoli teatrali e di alcuni fu anche regista) e alla musica, non tralasciando il sapere scientifico e il pensiero filosofico, soprattutto quello di Nietzsche.
“La sua opera sfugge ad ogni conclusione”, scrive James Naremore in “Orson Welles. Ovvero la magia del cinema”, pubblicato da Marsilio. “È un mondo, il suo, popolato da figure che incarnano simbolicamente le antinomie di uno stesso soggetto: il mondo borghese nella sua schizofrenia e nella sua parabola storica”. A Welles bisogna riconoscere il ruolo di grande inventore, sia sul piano della visione – per avere esplorato tutte le possibilità e le capacità di magia ed eccesso – e sia sul piano del racconto – per averne cambiato le regole. “Ma la forza della rottura formale, aggiunge Naremore, sta nello spessore culturale che la regge e che combina la tendenza all’effetto magico, indebitata con la tradizione gotica e romantica, con la tendenza didattico-brechtiana derivata dalla sua formazione politica”. Ottenere il successo a soli ventitré anni, non fu cosa da poco e molti invidiosi, soprattutto all’inizio, non glielo perdonarono affatto. Durante lo spettacolo radiofonico La guerra dei mondi riuscì a scatenare il panico in buona parte degli Stati Uniti, facendo credere alla popolazione di essere sotto attacco da parte dei marziani. Immediata fu la chiamata della casa di produzione RKO, che incuriosita da quel giovanotto esuberante, decise di offrirgli un contratto senza precedenti che prevedeva la realizzazione di un film all’anno, in assoluta liberà creativa e produttiva.
Dopo diversi tentativi andati a vuoto, Welles realizzò, nel 1941, il suo primo film, il suo capolavoro – Citizen Kane-Quarto potere – il suo film più discusso, il più commentato e il più studiato nell’intera vita del cinema. “Ancora oggi, dopo settant’anni dalla sua apparizione, per convergenza quasi unanime degli storici, divide quel secolo abbondante attraverso cui si è stratificata fino ad oggi la vicenda cronologica dei film, in un prima e in un dopo”, spiegano Nuccio Lodato e Francesca Brignoli. Sono gli autori di “Orson Welles. Quarto Potere“, un libro pubblicato da Lindau interamente dedicato al suo capolavoro d’esordio che viene analizzato alla luce di materiali nuovi e delle critiche più recenti, corredato da splendide fotografie in bianco e nero di alcune delle sequenze più significative.
Con quel film – liberamente ispirato alla vita di William Randolph Hearst, magnate americano dell’editoria e archetipo del capitalista moderno – Welles aprì al cinema nuove ed inedite prospettive, sia stilistiche che visive. “È stato un film rivelatore rispetto alla crisi degli ultimi anni e alle sue cause superficiali e profonde – scrivono i due autori – è un film dello scorso millennio stracarico di futuro”. Lo girò in tre mesi (con la collaborazione di Mankiewicz alla sceneggiatura), impiegandone altri nove per il montaggio, non rispettando nessuna – o quasi – delle rigidissime regole produttive hollywoodiane. Con quel film è riuscito a fare un’attenta e profonda incursione nella sfera del potere, dove dominano il narcisismo superomistico e il feticismo tirannico del denaro. Divise la critica, ma con il passare del tempo Quarto potere è stato ed è considerato uno dei maggiori capolavori della storia del cinema, pieno di invenzioni tecnico-stilistiche come l’uso inedito del piano-sequenza, la profondità di campo con l’utilizzo dell’obiettivo grandangolare, riprese dall’alto o dal basso, e molto altro ancora.
“Quando il 6 luglio del 1946 l’ ho visto al cinema Marbeuf, ho sentito che sarebbe diventato il mio film preferito e che non avrei mai dimenticato il nome di Orson Welles” disse François Truffaut. “Alla fine, la fama del film fu troppa e lui stesso non voleva più parlarne”, scrivono Lodato e Brignoli, riportando a loro volta le parole dell’amico fraterno di Welles, Peter Bogdanovich. “Ne era infastidito, era un film, diceva, non era altro che un film”. “Un film maledetto, quasi da maledire, ingombrante e troppo tumultuoso, origine di noie e guai che lo tormentarono per tutta la sua esistenza”.
E a proposito del suo film, Orson Welles disse:
“Quarto potere racconta la storia dell’inchiesta fatta da un giornalista di nome Thompson per scoprire il senso delle ultime parole di Charles Foster Kane. Poiché il suo parere è che le ultime parole di un uomo devono spiegare la sua vita. Forse è vero. Lui non capirà mai cosa Kane volesse dire, ma il pubblico, invece, lo capisce. La sua inchiesta lo porta da cinque persone che conoscevano bene Kane, che lo amavano e lo odiavano. Gli raccontano cinque storie diverse, ognuna delle quali molto parziale, in modo che la verità su Kane possa essere dedotta soltanto dalla somma di tutto quello che è stato detto su di lui. Secondo alcuni Kane amava soltanto sua madre, secondo altri amava solo il suo giornale, solo la sua seconda moglie, solo se stesso. Forse amava tutte queste cose, forse non ne amava nessuna. Il pubblico è l’unico giudice. Kane era insieme egoista e disinteressato, contemporaneamente un idealista e un imbroglione, un uomo grandissimo e un uomo mediocre. Tutto dipende da chi ne parla. Non viene mai visto attraverso l’occhio obiettivo di un autore. Lo scopo del film risiede, d’altra parte, nel proporre un problema piuttosto che risolverlo”.
Seguirono Il processo (1962) “il film più importante, l’esperienza più libera e completa di tutta la mia carriera”, dirà Welles, Falstaff (1966), per molti critici il suo capolavoro della maturità, fino a Storia immortale (1968), un mediometraggio tratto da un racconto della Blixen. L’ultima opera compiuta da Welles è F come Falso – Verità e menzogna (1974), un film sui travestimenti, sui trucchi, sul falso e sulla doppiezza, un’interessante e particolare riflessione sul rapporto tra arte e vita. Di recente, è stato ritrovato Too Much Johnson, un suo film che lui stesso pensava fosse andato distrutto nell’incendio che aveva colpito la sua Villa di Madrid.
Girato nel 1938 è stato ritrovato dal cineclub Cinemazero di Pordenone e la copia, un positivo in nitrato, è stata restaurata dalla George Estman House di Rochester con il contributo della National Film Preservation Foundation, in questi giorni presentato in anteprima alla Casa del Cinema di Roma.
Da grande artista, Welles morì nel 1985 davanti alla sua macchina da scrivere, mentre stava lavorando a una delle tante sceneggiature mai realizzate. Una fine da sogno, non c’è che dire.