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L’arte (magica) di Orson Welles diventa un documentario

Si intitola “Magician: The Astonishing Life and Work of Orson Welles” il docu-film, opera del premio Oscar Chuck Workma, che racconta il lavoro del regista, attore e produttore statunitense. Il titolo si riferisce alle capacità circensi di Welles: “L’immagine sconvolgente che ho di mio padre è mentre fa il mago per le truppe durante la guerra”, racconta la figlia Chris

Ci vorrebbe una serie tv per raccontare la sua vita, ma il regista e montatore Chuck Workman (Oscar per Precious Images) sceglie, a ragione, la via del documentario. Titolo, Magician: The Astonishing Life and Work of Orson Welles. Quel “Magician” sta bene addosso al racconto che ne ha fatto la figlia Chris Welles: “L’immagine sconvolgente che ho di mio padre Orson è mentre fa il mago sotto la tenda per uno spettacolo benefico, un magic show per le truppe durante la guerra. Era abilissimo coi trucchi, ce li faceva anche a casa e in scena doveva eseguire il famoso numero del segare la donna in due. La prima sera si prestò Rita Hayworth, di cui era innamorato, ma la Columbia le proibì di lavorare gratis, essendo una celebrità; così dalla seconda sera fu Marlene Dietrich a mettersi nella scatola magica”. Un’opera al di là della vita e del cinema, un trucco di magia oltre lo schermo – il riferimento è allo short film del ’53, Magic Trick, e allo speciale tv filmato tra il ’76 e l’85 – perché contenere la poesia, il pensiero, l’astro di Orson Welles è forse l’atto d’amore estremo, quello con le emozioni più intense, che un autore possa offrire all’altare dei maestri del panfocus (la profondità di campo resa celebre da Quarto potere di Welles); d’altronde, “il significato non è nelle cose, ma tra di loro”.

Pur circolando, da sempre, biografie, omaggi e ritratti dedicati a Welles, mai prima d’ora un documentarista è riuscito a imporre uno sguardo tanto personale e autentico sul regista/attore di Quarto Potere e Rapporto Confidenziale. In Magician, la cronaca circolare di un’epoca – dagli anni Venti e Trenta – ci porta dritti a Woodstock, Illinois, con salti all’indietro in cui Welles, appena adolescente, si fa coccolare sui palcoscenici e costruisce, recitandovi, le prime produzioni tratte da Shakespeare. Ci sono anche i soggiorni in Europa: lo sentiamo parlare un italiano a malapena accettabile. Ogni materiale d’archivio, ogni pennellata di Workman, nel suo doc, è un pezzo di Lego (di Welles) che cresce di volume, sino a restituirci l’immagine totale del pioniere dei filmmaker indipendenti nel dopoguerra americano, proprio a cent’anni dalla sua nascita.

Si aggiungono fotogrammi rarissimi, flash di bozzetti, soggetti e giornalieri dal set che mettono ancora più a fuoco il radicarsi dell’ideologia di Orson Welles e delle sue esperienze con l’arte e la sperimentazione. Idem per i camera test, in cui Welles riprende se stesso e si auto-provina (per Don Quijote, The Deep, il tv movie Il mercante di Venezia, Re Lear, L’altra faccia del vento; quest’ultimo, incompiuto, grazie all’accordo con Royal Road Entertainment, potrebbe avere la sua uscita mondiale nei cinema nel 2015, fa sapere il New York Times). A questo si affiancano interviste e video-estratti ripescati dal dimenticatoio: John Houseman, William Alland, Robert Wise, Pandro S. Berman, Richard Wilson, Michael MacLiammoir, Suzanne Cloutier, Peter Viertel. Le loro testimonianze riconoscono nel giovane Orson un artista prodigio, moderno, a partire dalla Todd School a Woodstock dove impara ad amare Shakespeare e la recitazione.

Folgoranti le affermazioni di Jane Hill, figlia del mentore di Welles alla Todd, Roger Hill, secondo cui Orson non aveva “abilità empatiche”, mentre stando alla figlia di Welles, Beatrice, “avere mogli e figlie era un peso, un ostacolo per lui”. Il grande momento di Welles negli anni Trenta, grazie al Federal e al Mercury Theater, e soprattutto alla radio, è raccontato attraverso snodi di cinegiornali e fotografie; in sottofondo, scorrono le dichiarazioni rilasciate, appositamente per Workman, da Norman Lloyd, storico attore e produttore, e le clip di Richard Linklater tratte da Me and Orson Welles (2008) con Zac Efron e Christian McKay nel ruolo cruciale.

Welles, filmmaker ribelle e “degenerato”, lotta solitario contro ascese e cadute a Hollywood, dall’Oscar diviso con Herman J. Mankiewicz per Quarto potere a L’orgoglio degli Amberson, passando per storie cinematografiche che lo esaltano, come It’s All True, bioscopia del film in tre parti che Welles avrebbe dovuto realizzare sul Sud Africa. Di oggetti perduti e ritrovati è ricca la carriera di Welles; basti citare Too Much Johnson, restaurato dalla George Eastman House e con Joseph Cotten, che sarebbe diventato celebre per il ruolo di Leland in “Quarto Potere”. Il film del 1938 è stato proiettato lo scorso anno alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone.

Le opere di Orson Welles sono un po’ come lui: gypsy e zingare. Il bouquet che Chuck Workman lancia nel cielo degli autori, come tributo, è diviso in capitoli, piuttosto grafici, quasi come nei film di Tarantino. Dall’infanzia alla maturazione, dal Voodoo Macbeth ai radio show e la voce prestata in The Shadow, dall’invasione fantasy dei marziani durante l’Halloween del ’38 (La guerra dei mondi) ai contratti-carta bianca della RKO: 1915-1941: The Boy Wonder è il primo gradino verso la stravaganza stilistica di Welles, condivisa da Peter Bogdanovich e Oja Kodar che, assieme a Frank Marshall, Anthony Perkins, Martin Scorsese, Sydney Pollack e Steven Spielberg, rendono Magician un bel bisturi dentro la pancia del grande prestigiatore. Il documentario ha avuto la sua anteprima al Telluride Film Festival e sarà nelle sale statunitensi a partire dal 12 dicembre.

Fonte http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2014/11/04/news/il_mago_orson_welles-99273415/

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