Telepathy di Francesco Tesei al Teatro Olimpico di Roma #recensione #intervista
Tesei mancava da alcuni anni dalle scene romane e vi ha fatto ritorno con una data che ha visto il Teatro Olimpico riempirsi di spettatori e colleghi del mondo magico (si segnala su tutti il Maestro Silvan). E non è un teatro da pochi posti.
Lo spettacolo dal titolo Telepathy è difficile da descriversi perché se facessi un semplice elenco degli “effetti” sarebbe abbastanza sterile per come è stato connaturato per cui ho chiesto aiuto allo stesso Tesei che, gentilmente, ha risposto a tre mie domande per questo ibrido tra la recensione e l’intervista.
Inizio da quello che personalmente è stato un momento particolare sia per i temi trattati sia per come sono stati affrontati. Già il numero dei “tocchi” si presta a essere molto emozionale e misterico di suo, ma se lo ancoriamo a ciò che abbiamo passato? Al distanziamento sociale? Al non abbracciarsi? E il tutto senza retorica, opinioni, ma delicato sulla punta di un “Ti sento” che è il ritorno alla normalità e a un abbraccio di qualsiasi genere.
- Il filo narrante da te scelto in questo spettacolo è molto particolare perché va anche a toccare il vissuto degli ultimi tempi. Come sta reagendo emotivamente il pubblico?
“Ho deciso di toccare il nostro vissuto perché mi sembrava assurdo tornare in scena e far finta che non fosse successo nulla nei due anni precedenti. Due anni! Mica due settimane… Non volevo sembrare uno di quegli artisti che si auto-ibernano, che vivono fuori dalla realtà. Anch’io sono passato in mezzo a questa notte lunga e fonda, come tutti: non potevo ignorarla. Per quanto riguarda la percezione del pubblico, non lo so, perché la mia è una percezione inevitabilmente limitata. Preferisco girarti la domanda. Tu eri allo spettacolo, in mezzo al pubblico: che sensazione hai avuto?”
Rispondo sottolineando che nessuno in sala si azzardava a fiatare sia per ciò che di misterioso stava accadendo sul palcoscenico sia proprio perché eravamo tutti coinvolti e consapevoli di quello che significava. Un voler essere toccati, ma eravamo distanti, isolati e ci bastava vederci online per essere quasi umani. La bellezza di un ritorno alla normalità che non è quella di prima sicuramente e ha lasciato strascichi e cambiamenti, Tutto oggi ci pare più sacro per cui per quale motivo il performer, senza guardare, dovrebbe lasciare al caso e alla scelta di un volontario il posizionare un chiodo sotto cinque bicchieri che poi lui andrà a schiacciare sperando di non trapassarsi la mano?
Questo effetto verrà spalmato su tutto lo spettacolo perché Tesei riesce a connettere ogni cosa che fa dall’iniziale cubo di Rubik agli ultimi due bicchieri rimasti e di cui sotto a uno vi è il chiodo fatale.
Istrionico, irriverente, la battuta pronta, poetico, riesce e intessere una sua trama di lucida follia e mistero dove tutti ci ritroviamo per sensazioni ed emozioni; è come se narrasse dei nostri stati d’animo e il pubblico vi risponde.
Per cui la domanda successiva è spontanea.
- Spesso quando un performer chiama un volontario sul palco la gente pare intimorita mentre con te salgono volentieri e felici di sottoporsi agli esperimenti. Credi ci sia più curiosità verso questo tipo di spettacolo rispetto ad altri?
“Credo di essermi conquistato, nel tempo, la fiducia degli spettatori. Li ho sempre trattati con garbo e con rispetto. Può accadere il momento di ironia, ma il pubblico si rende conto che “il gioco” non è quello di chiamare spettatori sul palco per ironizzare su di loro e metterli in imbarazzo. Non credo sia una questione di “tipo di spettacolo”, ma di stile.”
Aggiungo che il tono gentile, le differenti modulazioni recitative, la chiarezza nell’esporre quello che dovrà fare il volontario, l’eleganza dei gesti accentuano tutto ciò per cui l’assistente va sul palcoscenico non per mettersi in mostra, come spesso può accadere, ma per l’emozione di percepire un’esperienza nuova.
I colpi di scena non mancano, vedasi la conclusione del book testa di cui non sto qui a parlare per non rovinare la sorpresa, e i leitmotiv che ritornano incessantemente in un hellzapoppin che mi ha ricordato gli spettacoli di Lindsay Kemp dove non riuscivi mai a comprendere quale sarebbe stato il passo successivo e ti lasciavi trasportare come su una montagna russa.
Poi la citazione di Amleto, il riferimento al periodo della peste in cui vi trovò humus fertile Shakespeare, la follia che non è follia, ma lo è in chi sembra normale, la cura che non è cura, la scoperta, l’improvviso magico che accade, il dormire, il morire, forse sognare e poi improvvisamente la lama lucida della matematica.
3) π e Amleto. Un binomio molto particolare. Come è nata l’idea di questo percorso?
Telepathy è stato scritto durante la pandemia e i lockdown. I teatri erano chiusi, quindi il lavoro era fermo e non si sapeva quando sarebbe ripartito. Creare questo spettacolo era per me una valvola di sfogo, e anche un modo per trasformare l’ansia, la passione, la rabbia e la sofferenza in qualcosa di creativo. In questo senso, credo che Telepathy sia lo spettacolo più “autentico” tra quelli che ho prodotto, perché racconta il mio percorso personale in maniera genuina, seppure in forma teatrale. Ho sempre avuto il difetto di fare il “saputello”, in scena. Il perfettino. Per fortuna ho capito molto presto che tornare sul palco e sentenziare sulla pandemia sarebbe stata una pessima idea. Potevo però raccontare di me. Trasmettere le mie emozioni, e lasciare che ognuno le facesse risuonare dentro di sé. C’è differenza tra raccontare e trasmettere. Io alterno questi due registri, in effetti. Racconto le similitudini tra l’Amleto e il periodo che abbiamo vissuto, e cerco di trasmettere la mia frattura interiore attraverso il materiale che ho scelto: il primo atto è una sequenza di esperimenti che hanno in comune un aspetto compulsivo, maniacale, per certi versi folle. A cosa serve saper contare il numero di bottoni dal suono che fanno? A niente! Ma comunica l’idea di (parafrasando dallo show…) una teiera lasciata sul fuoco per mesi, che ha finito l’acqua ed è diventata rovente. Quella è la mia mente, forse il mio animo. A fare da sostegno alla follia Shakespeariana c’è poi l’aspetto paradossale che fa capolino a metà del primo atto: la voce dentro la mia testa che vuole sabotarmi, poi la pillola che non prendo, e successivamente il bivio da imboccare. C’è il sibilo della teiera che martella il mio cervello: durante il primo atto lo sento solo io ma, nel secondo atto, anche il pubblico comincia ad avvertirlo, per veicolare il dubbio che la mia follia potrebbe essere “contagiosa”. Questo dubbio ci fa scivolare, tutti assieme, nella parte conclusiva dello show, in cui Tutto diventa verosimile e inverosimile. Mi piace pensare che sia una “caduta libera” simile a quella di Alice nel Paese delle Meraviglie, tra sogno e allucinazione.
Ringrazio Tesei per aver risposto a queste mie domande perchè mi ha donato le parole che sinceramente non avrei saputo trovare per descrive uno spettacolo di teatro magico puro dove il pacifico finale potrebbe essere la premessa al suo inizio.
So solo che eravamo tutti emozionati e dovrebbe sempre essere questo il fine di uno spettacolo.